Storia di una comunità:

Nel testamento spirituale don Isidoro parla di una “Damasco” datata 4 ottobre 1978. L’autore non ha voluto rivelarci quale fosse il contenuto di quell’intima rivelazione, ma è certo che proprio sul finire degli anni Settanta egli cominciò ad occuparsi della sorte dei tossicodipendenti, che all’epoca erano rappresentati soprattutto da giovani eroinomani. Egli cominciò col riunire attorno a sé un fedele manipolo di volontari, molti dei quali ancora oggi portano avanti l’impegno preso allora. Dopo un primo approccio con i tossici ricoverati nell’ospedale di Busto, in un’epoca in cui le strutture sanitarie pubbliche ancora non erano organizzate per affrontare il problema, con l’aiuto di volontari e con il contributo economico dei Lions, nel 1984 don Isidoro aprì un punto di ascolto in via Gavinana a Busto Arsizio.

L’iniziativa suscitò riscontri positivi, ma all’accoglienza praticata nelle due stanze di via Gavinana mancava il gradino successivo del recupero vero e proprio. Perciò, qualche anno dopo, forte della collaborazione di chi già lo aveva sostenuto, don Isidoro fece acquistare e ristrutturare una cascina nella periferia verde della città. Nel 1987 esse venne inaugurata come comunità maschile di recupero per tossicodipendenti “Marco Riva”. Il rustico fatiscente si era trasformato in un bel casolare di campagna, dotato di camere al primo piano e, al piano terra, di una grande cucina, una sala da pranzo con un ampio salotto per le riunioni e la vita comune, un ufficio, un ambulatorio medico, una sala per l’attività psicoterapeutica, lavanderia e dispensa. Lo scantinato fu attrezzato come palestra e, in parte, come laboratorio informatico. Annessi alla struttura, sorsero un grande laboratorio per attività meccaniche e artigianali, capienti recinti per gli animali e un vasto terreno coltivato ad orto. La struttura è attrezzata per accogliere fino a 14 ospiti.

Il metodo della comunità: dallo sballo all’empatia

L’intero lavoro di recupero ancora oggi praticato alla “Marco Riva” è impostato sul progetto terapeutico elaborato da don Isidoro, che l’ha condensato in un breve testo dal titolo: “Dallo sballo all’empatia. Diagnostica e terapia della tossicodipendenza”, pubblicato postumo. Il programma è frutto di un intenso studio che don Isidoro praticava di notte su testi di psicologia, filosofia e medicina, rubando il tempo al sonno.

Il metodo di recupero della “Marco Riva” si basa su due pilastri: la logoterapia e l’ergoterapia.

Con la prima si intende il lavoro sulla comunicazione, che per un tossicodipendente incentrato esclusivamente sull’edonistica ricerca dello “sballo” procurato dalle sostanze stupefacenti, si impoverisce e si riduce fino all’estremo. La logoterapia si sviluppa attraverso vari appuntamenti periodici: due riunioni di gruppo settimanali con il terapeuta e l’educatore sulla comunicazione e il controllo dell’emotività, colloqui individuali col terapeuta, incontri di verifica settimanale sull’andamento gestionale della comunità. Attraverso il dialogo, il confronto e l’allenamento alla parola, i ragazzi imparano a riflettere su se stessi e a formare un attendibile quadro della propria personalità, recuperando un primo contatto con la realtà.

Oltre agli incontri più spiccatamente terapeutici, don Isidoro avviò la tradizione, tutt’ora in uso, di dedicare qualche sera della settimana all’approfondimento degli argomenti più vari: musica, cinema, educazione civica, matematica, meccanica, sicurezza sul lavoro e molto altro.

Oltre che sul potere terapeutico della parola, don Isidoro costruì il suo metodo di riabilitazione sul valore del lavoro, ovvero sull’ergoterapia. Questo aspetto gli stava particolarmente a cuore e per diversi motivi: innanzitutto, il lavoro amplifica i benefici della logoterapia, perché quando si costruisce qualcosa assieme è necessario parlarsi e la comunicazione spezza l’isolamento, riducendo il rischio di depressione. Il lavoro insegna la fatica, che è ciò che il tossicodipendente vorrebbe evitare costruendosi un mondo di piaceri fittizi che, però, non può reggere il confronto con la realtà. Il lavoro responsabilizza, perché è necessario maneggiare con attenzione attrezzi potenzialmente pericolosi e perché del risultato delle proprie fatiche bisogna rispondere ai committenti. Il lavoro sviluppa le capacità di progettazione, perché comporta la ricerca di soluzioni sempre nuove e infonde fiducia in se stessi. La preparazione professionale acquisita durante i mesi di comunità, infine, è funzionale al futuro reinserimento dei residenti nella società, anche perché gli impieghi proposti alla “Marco Riva” nulla hanno a che fare con una generica manovalanza, ma sono, piuttosto, lavori qualificati di stampo artigianale che trasmettono ai ragazzi competenze professionalizzanti. In particolare, il laboratorio interno si occupa di carpenteria, torneria, montaggio di strutture, assemblaggio meccanico e di elementi plastici.

Oltre ai laboratori artigianali, i ragazzi si occupano di agricoltura. Nel grande terreno a disposizione della cascina si coltivano diverse qualità di verdura, insieme a fieno e grano, e si allevano vari animali da cortile.

Oltre ai laboratori e al lavoro in campagna, i residenti sono impegnati con i servizi ordinari necessari alla vita della comunità, come la cucina, le pulizie, la manutenzione dei mezzi.

La “Marco Riva” oggi:

Oggi la “Marco Riva” segue esattamente lo stesso metodo elaborato da don Isidoro, con l’unica differenza che, come previsto dalla legge attuale, i nuovi casi vengono segnalati dai Sert (i servizi sanitari pubblici per le tossicodipendenze) e non provengono più dal centro di ascolto di via Gavinana, ormai chiuso. Nella comunità lavorano due psicoterapeuti, due educatori professionali, un sorvegliante notturno e diversi volontari.

È cambiata anche la tipologia dei pazienti: ai giovani eroinomani si sono sostituiti uomini di mezza età rovinati, oltre che dall’eroina, da altre sostanze nocive come cocaina, hashish, marijuana, acidi e alcol.

A monte di ogni ricovero si situa la libera scelta degli ospiti, che visitano la comunità e vengono informati sulle regole della convivenza e sulla natura della terapia. Se accettano di entrarvi, allora si predispone il piano di riabilitazione, che viene personalizzato sulle esigenze di ciascun ospite e predisposto sulla base dei colloqui con l’interessato e della relazione dei Sert. La durata stessa del trattamento varia in funzione delle personali esigenze di riabilitazione. In genere, si rimane alla “Marco Riva” tra i 6 e i 36 mesi, anche se per la maggior parte degli ospiti la permanenza dura un anno e mezzo. Il percorso si sviluppa attraverso tre fasi: dall’accoglienza, al trattamento terapeutico, all’inserimento lavorativo. Se al termine del periodo programmato si verifica che il residente ha raggiunto gli obiettivi prefissati, allora la terapia può considerarsi conclusa, altrimenti essa viene prolungata in funzione delle necessità.

Lungo tutto l’arco del percorso di recupero, gli ospiti risiedono stabilmente in Cascina e riprendono i contatti con il mondo esterno gradualmente e solo nell’ultima fase del trattamento.

La comunità di don Isidoro oggi arriva a recuperare il 36% dei suoi ospiti. Ma le statistiche non dicono tutto: numerosi sono i pazienti che hanno lasciato la comunità senza essere completamente ristabiliti e che, seguiti dai volontari della “Marco Riva”, sono comunque riusciti a guarire.

Vuoi aiutare la “Marco Riva”?

La “Marco Riva”, oggi, è il segno più concreto dell’eredità di don Isidoro. Essa svolge un lavoro impegnativo e delicato, che impegna le forze di professionisti e volontari, molti dei quali vi operano fin dagli albori, stimolati dall’invito di don Isidoro.

Oggi quell’invito è rivolto anche a te. Puoi aiutare la “Marco Riva” con una semplice donazione oppure offrendo un po’ del tuo tempo e delle tue capacità umane e professionali come volontario. In entrambi i casi, ti invitiamo a contattare la comunità a questi recapiti:

«Davanti a qualsiasi fratello, abbiate il coraggio di non chiudere né mente, né cuore; Gesù ce ne rende capaci e ci fa avere il “Suo centuplo”». (dal testamento di don Isidoro)